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Ai poeti tutto è concesso, anche sbagliare: oltre i confini della licenza poetica

Tutto è concesso in amore e in guerra, e anche in poesia

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Licenza poetica

Poesia e pittura. Un poeta greco le sovrappose, dando vita al plurisecolare principio estetico dell’ut pictura poesis; era Simonide di Ceo e il verso fatale, giuntoci tramite Plutarco, suona così: “La pittura è una poesia muta e la poesia una pittura parlante“. Spesso a queste due arti viene concessa la cosiddetta licenza poetica, descritta con due sublimi esametri da Orazio nell’Ars Poetica:

A pittori e poeti sempre fu data

una giusta facoltà di osare tutto“.

ORAZIO

Nei Due Gentiluomini di Verona di Shakespeare, nella prima scena del primo atto che si svolge proprio a Verona, uno dei due protagonisti, Valentino, dice all’altro, Proteo: “Di nuovo addio. Mio padre mi aspetta nel porto per vedermi montare sopra il vascello“. Poco dopo, al servo di Valentino, Schizzo, che cercava il suo padrone, Proteo risponde: “Ei partì di qui dianzi e andò ad imbarcarsi per Milano“. A queste battute, un lettore, anche spregiudicato o disattento, leva il capo: ma come, il mare a Verona, il mare a Milano? Proprio così! Venezia, Otello, le grandi battaglie navali della repubblica marinara, e il lontano poeta inglese poté vedere il mare anche nel centro della pianura lombarda, Verona e Milano. Che non è poi uno sproposito molto più grosso di quello di tanti nostri pittori del Cinquecento, i quali vestivano madonne e santi di fogge e colori del proprio tempo; quando nei loro quadri non raffiguravano addirittura se stessi, come fece nella Cena in casa di Levi Paolo Caliari, detto il Veronese. Tanto è che il dipinto, conservato a Venezia nelle Gallerie dell’Accademia, nacque con il titolo di Ultima Cena, ma contestato dal Tribunale dell’Inquisizione per la presenza di figure poco serie, cambiò nome.

Quand’anche l’errore è poetico e il mare può esistere anche a Milano

Il pubblico protesta? Il pubblico ha sempre ragione. No signori cari, quello è il cliente! Il pubblico semmai ha sempre reclamato questi difetti di verità e verosimiglianza massimamente dove il difetto, come in opere di pittura e scultura, dà più visibilmente nell’occhio; e di simili proteste i poveri pittori e scultori furono sempre, e sempre saranno, il più scoperto bersaglio. Critiche, anche letterarie, di tal genere ce ne sono sempre state, sin dall’antica Grecia. Era di moda allora, e la moda incominciò dai sofisti, che dovunque ci si trovasse, nei bagni, nei portici, nei conviti, si intavolavano dispute di questo genere; e ne facevano le spese artisti e poeti, e fra i poeti addirittura Omero. Finché un giorno arrivò Aristoteleche ipotizzò e distinse. In quel suo così piccolo e cosi grande e modernissimo libro che è la Poetica, teorizzò: se un artista, comunque si sia proposto di rappresentare un oggetto, non è riuscito a rappresentarlo come lo aveva concepito, il difetto è suo, dell’arte sua, del suo poetare o del suo dipingere. Se invece di quell’oggetto, o per ignoranza reale o per indifferenza e noncuranza, aveva un’idea sbagliata, allora l’errore riguarda altre particolari scienze e conoscenze, la storia naturale, la medicina, la geografia, il costume e simili, non riguarda lui in quanto artista, né l’arte sua per sé medesima. Insomma Aristotele voleva dire che se un pittore si è proposto di rappresentare una caccia e dei cani in corsa veloce, e questi cani, come se ne vedono in bassorilievi assiri dei palazzi di Ninive o in certi pugnali ageminati di età micenea, li ha raffigurati con tutte quattro le zampe distese, quel pittore o scultore avrà commesso un errore di verità naturale, ma proprio con quell’errore è riuscito a rappresentare quel velocissimo correre, e cioè ad esprimere la sua propria verità, la sua propria fantasia e poesia. In questo caso, non è passibile di reato! Bene. Shakespeare non sapeva, né si curò di sapere, se a Verona e a Milano il mare ci fosse oppure no. È un errore che non tocca la poesia, né in bene né in male. La sua invulnerabilità è salva. Leggiamo tranquilli inebriandoci dei suoi versi, tutt’al più sorridiamo, e andiamo avanti.

Apriamo la Gerusalemme Liberata, canto primo, ottava 15. Goffredo è presso Gerusalemme. Iddio gli spedisce un messo celeste, nientemeno che l’arcangelo Gabriele. Qui il Tasso ha bisogno di un paragone grandioso, luminoso e solenne per quell’apparizione:

Sorgeva il novo sol dai lidi eoi, / Parte già fuor, ma il più nell’onde chiuso; / E porgea matutini i preghi suoi / Goffredo a Dio, com’egli avea per uso; / Quando a paro col Sol, ma più lucente, / L’Angelo gli apparì da l’oriente

torquato tasso

Il guaio è che il mare, Goffredo, stando in Palestina, lo vedeva a occidente. Ma alla poesia del Tasso concediamo spostamenti marini e altro ancora se necessario.

Quand’anche Carducci scese a compromessi con l’immaginazione

Un caso ben diverso, ricordo di aver letto tempo fa in una pregevole critica letteraria, riguardava il Carducci. Sapeva bene il poeta che a Milano il Resegone, il monte descritto anche nei Promessi Sposi, è a nord-est, e che quindi dietro di lui nessuno può veder tramontare il sole. Nell’Epistolario carducciano c’è una lettera a Lidia – la musa ispiratrice delle Odi barbare, al secolo Carolina Cristofori – del 22 aprile 1876, dove il poeta le annunzia che sta scrivendo un poema e le riferisce la prima strofe della Canzone di Legnano. Nella lettera seguente, del 27 aprile, il componimento è finito; e quindi anche l’ultimo verso è stato scritto: Il sole / ridea calando dietro il Resegone“. Viene ora al Carducci uno scrupolo e un sospetto. Prima non ci aveva pensato. Per lui quel nome era un nome manzoniano e niente più! E ne domanda a Lidia. “Voglia dirmi se il Resegone è a ponente di Milano: insomma se il sole, al tramonto, si vede presso o vicino o non distante al Resegone“. Notare l’insistenza e i raggiri: a quel suo verso il poeta si è affezionato; mutarlo gli secca e già mette le mani avanti. “Ciò per il mio poema che è arrivato al v. 130 – (perché il poema forse doveva seguitare – ma ho paura di non finirlo“, scrive anche nella lettera precedente). Senza dubbio la Lidia dové rispondere al Carducci, e rispondere con verità. E il Carducci, tuttavia piacendogli quel suo verso e quella sua immaginazione, lasciò stare così come aveva scritto.

Tutto è concesso in amore e in guerra, scrisse il romanziere inglese Francis Edward Smedley; mi permetto di aggiungere, anche in poesia.

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