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Gli intercalari e la moda dell’errore del piuttosto che con valore disgiuntivo

Peggio ancora quando un intercalare è anche un grave errore semantico

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Piuttosto che

L’aggettivo intercalare è proprio del giorno o del mese che, a determinati intervalli di tempo, si aggiunge nei diversi sistemi di divisione del tempo per far coincidere, ad esempio, l’anno civile con l’anno tropico, l’anno lunare o lunisolare con l’anno solare. Il giorno intercalare per antonomasia è il 29 febbraio che nel calendario gregoriano è aggiunto al mese negli anni bisestili. Il “problema” arriva quando diventa sostantivo maschile. 

Gli intercalari, quelle paroline, esclamazioni, frasi che molti hanno l’abitudine, più o meno inconscia, di ripetere spesso nel discorso, senza alcuna necessità

Gli intercalari, i microbi del linguaggio

Qualcuno li definì microbi del linguaggio. Perché? Meglio mosconi, zanzare, insetti molesti. Si pronunciano così, senza pensarci: sono come i tic che fanno vibrare i muscoli della faccia. Con la differenza che i tic sono invincibili, mentre per liberarsi dagli intercalari, un piccolo sforzo di volontà basterebbe. Costringetevi, condannatevi a non pronunciare più quelle odiose parole, anche dove esse sarebbero appropriate, e ci riuscirete. Se vogliamo analizzare alcuni intercalari, scopriamo che essi sono inutili e assurdi. C’è chi ogni tre parole dice: morale. La morale sta bene in fondo all’apologo, ma non in mezzo a un discorso. C’è chi dice continuamente “tra parentesi“.

Ma se tutto sta chiuso tra parentesi, fuori che cosa ci resta?

Odiosi quelli che catapultano su ogni parola virgolette mimandole con gli indici e i medi delle mani! Comunissimo il “vero?“. L’hanno anche i Francesi (n’est pas?) e i Tedeschi (nicht war?); e c’è la forma agglutinata “nevvero” e quella abbreviata “neh”. Riflettiamo: non è curioso che io, parlando, domandi a un altro se è vero ciò che dico? C’è anche l’intercalare “dice”, ma questo può essere necessario, riferendo un dialogo, per distinguere i vari interlocutori: meglio non abusarne. Come avviene di tutte le cose umane, i difetti altrui c’infastidiscono, mentre vorremmo tolleranza per i nostri. Pensate a marito e moglie nei Rusteghi. Lei non può soffrire il “vegnimo a dire il merito” del marito e questi freme ad ogni “figurarse” della moglie. Al Goldoni, insuperabile studioso del dialogo, gli intercalari non potevano sfuggire. Peggio ancora quando un intercalare è anche un grave errore semantico

Meglio non dirlo piuttosto che dirlo

La moda, soprattutto nel linguaggio televisivo, dell’impiego di piuttosto che con valore di disgiuntiva o è ormai pericolosamente dilagante. Un fenomeno d’origine settentrionale, sbocciato in un linguaggio certo non popolare e probabilmente venato di snobismo. Era fatale che tra i primi a intercettare golosamente l’infelice novità lessicale fossero i conduttori e i giornalisti televisivi, che insieme ai pubblicitari costituiscono le categorie che da qualche decennio – stante l’infinito potere di suggestione del “medium” per antonomasia – governano l’evolversi dell’italiano di consumo. Non c’è giorno che dall’audio della televisione non ci arrivino attestazioni del piuttosto che, spesso servito in serie a raffica: “… piuttosto che … piuttosto che … piuttosto che …“, oppure “… piuttosto che … o … o…“, e via con le altre combinazioni possibili. Dalla ribalta televisiva il nuovo modulo ha fatto presto a scendere sulle pagine dei giornali, web o anticati ancora d’inchiostro: ormai non c’è lettura di quotidiano o di rivista in cui non si abbia l’occasione d’incontrarlo. E purtroppo la discutibile voga ha cominciato a infiltrarsi anche in usi e scritture a priori insospettabili. Eppure non c’è bisogno di essere dei linguisti per rendersi conto dell’inammissibilità nell’uso dell’italiano d’un piuttosto che in sostituzione della disgiuntiva o.

La moda dell’errore: la disgiuntiva televisiva

Intendiamoci: se quest’ennesima novità lessicale è da respingere fermamente non è soltanto perché essa è in contrasto con la tradizione grammaticale della nostra lingua e con la storia stessa del sintagma. La ragione più seria sta nel fatto che un “piuttosto che” abusivamente equiparato a “o” può creare ambiguità sostanziali nella comunicazione, può insomma compromettere la funzione fondamentale del linguaggio. “È stupefacente – leggo su un noto quotidiano di cui non faccio il nome – riscontrare quanti turisti stanno invadendo la capitale, popolando i Musei Vaticani, piuttosto che la Galleria Borghese, piuttosto che i Musei Capitolini“. Naturalmente questo piuttosto che pretende di surrogare la semplice disgiuntiva, ma il lettore non modaiolo è portato a chiedersi come mai questi turisti snobbino per l’appunto la prestigiosa collezione d’arte iniziata da Scipione Borghese nella quale, tra gli altri, si ammirano Canova, Caravaggio, Bernini e Tiziano; e allo stesso tempo ignorino la visita al museo pubblico più antico del mondo, fondato nel 1471 dal papa Sisto IV.

Piuttosto che niente, meglio niente

Azzardo un simpatico esempio per riflettere su quanto la lingua italiana sia complicatamente bella, cesellata con infinite sfumature colorate. “Andrò a Capri in traghetto o a nuoto“. In questo caso le due alternative semplicemente si bilanciano, al massimo il mio interlocutore penserà che io sia un novello Phelps. Se variamo la frase rafforzando il semplice “o” con l’aggiunta dell’avverbio “piuttosto“: “Andrò a Capri in traghetto o piuttosto a nuoto“, chi mi ascolta può cogliere una tendenziale inclinazione per la seconda delle due soluzioni, quella della traversata sportiva. Sostituiamo a questo punto “o piuttosto” con “piuttosto che“: “Andrò a Capri in traghetto piuttosto che a nuoto“; qui risalta abbastanza nettamente – sempre attraverso la comparazione tra due opzioni – una preferenza per la prima rispetto alla seconda, concedendomi un viaggetto in pieno relax. Dall’analisi delle varianti contestualizzate nelle tre frasi, mi sembra si delinei una possibile spiegazione del “piuttosto che” semanticamente “deviato” di cui ci stiamo preoccupando: in sostanza, può essere il prodotto di una locale, progressiva banalizzazione portata fino alle estreme conseguenze, cioè fino al totale azzeramento del significato che storicamente gli compete e che nell’italiano corretto continuerà a competergli. Basterà avere un po’ di pazienza: anche la moda di quest’imbarazzante “piuttosto che” finirà prima o poi col tramontare, come accadde fatalmente per il monocolo, che un languido Ottocento aveva soavemente ribattezzato caramella e per i mustacchi in stile Belle Époque.

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