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Il green pass e le “invasioni barbariche” nella lingua italiana

L’editoriale di Roberto De Frede

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La mia lingua è la mia patria, hanno detto vari scrittori, ciascuno per sé.

Il sangue del mio spirito è la mia lingua e la mia patria è laddove risuona”, scriveva il basco Miguel de Unamuno nel 1910. Un secolo dopo, Luis Sepúlveda affermava che “da apolide e poi da cittadino di un paese non mio, la mia lingua è diventata la mia vera patria”. Anche senza la drammatica esperienza dello scrittore cileno, potremmo comprendere che la lingua esprime la parte più profonda della nostra personalità, perché lì risiede davvero il nostro io

Da anni ormai, dietro l’alibi della necessità di semplificazione e di globalizzazione si celano ignoranza, pigrizia, superficialità, scarso amor proprio e perdita dei valori, adoperando spesso inutilmente parole straniere – inglesi soprattutto – pur avendo a disposizione il vocabolo italiano perfettamente corrispondente. Cosa penserebbero oggi Voltaire e Manzoni di questa ennesima “invasione anglofona”?

Le anglofone e barbariche invasioni

Verso la fine del capitolo settimo de I Promessi Sposi, riferendosi ai momenti che precedono il matrimonio a sorpresa e alla maniera in cui li stanno vivendo i protagonisti dell’impresa, il narratore scrive: “Tra il primo pensiero d’una impresa terribile, e l’esecuzione di essa, (ha detto un barbaro che non era privo d’ingegno) l’intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure”. Manzoni qui cita una frase tratta dalla tragedia Giulio Cesare (atto II, scena I), indicando l’autore, Shakespeare, con le parole usate da Voltaire, che considerava il poeta inglese rozzo – forse (e qui forzo un po’ la mano…) proprio per quella lingua così lontana dal mondo classico greco e latino -, ancorché geniale. Probabilmente, se fossero vissuti nella stessa epoca, quei due avrebbero aperto insieme un blog – pardon, una pagina elettronica – contro la contaminazione linguistica, soprattutto quella improduttiva, che fa solo “tendenza e moda” come si suol dire oggi, rendendo “fico” chi biascica sigmatizzando.

Il virus diffonde con sé anche la sua lingua

Il virus mondiale diffonde con sé anche la lingua “globalizzata” della perfida Albione, contro la quale non c’è vaccino che tenga, ma soltanto la forza dell’amor della favella materna, come ebbe a dire un tempo il Guerrazzi. L’uso massiccio di parole inglesi da incubo nel linguaggio pubblico italiano, ancor più di prima, salta agli occhi: lockdownsmart working, dropletclusterrecovery fund e si spera da ultimo il tanto costituzionalmente discusso green pass, che del colore verde, sul documento cartaceo, non c’è traccia. Tutti questi termini, e molti altri ancora, che passano per “nuove trovate d’oltremanica”, non solo hanno l’equivalente in italiano, ma per ciò che intendono rappresentare, trovano lontane origini storiche proprio in Italia. Già il 30 ottobre del 1629, durante la “peste manzoniana” il Tribunale di Sanità di Milano dispose le bullette: bollette, o Fedi di sanità come venivano chiamate, erano veri e propri passaporti sanitari, certificati di lasciapassare recanti la firma del magistrato deputato per essere considerati validi.

Bullette: quando già esisteva il green pass, in Italia, nel 1629

Tali documenti attestavano che il loro possessore era sano e proveniente da località nelle quali la malattia non si era manifestata, potendo liberamente circolare in città. Dunque un green pass del Seicento, un lasciapassare! La lingua è un rifugio, una casa del cuore, dove troviamo tutto ciò che non scorgiamo nel mondo: non solo l’anima e i sogni, ma l’immaginazione, l’emozione, la creazione, i fantasmi del passato e le utopie del presente. È ciò che consente di esprimerci, di comunicare, di dare informazioni, di trasmettere esperienze, di amare, di raccontare storie, di emozionare. Le nostre parole, nonostante le mascherine e l’assenza della stretta di mano, aiutano a farci incontrare con gli altri e differenziarci dagli altri, di cantare insieme e di isolarci nei nostri pensieri, di inventare, di fingere e di mentire.

Ogni parola della nostra lingua madre, prima di significare qualcosa, esprime un istante della nostra vita personale. Siamo esseri linguistici per definizione, ma lo siamo ciascuno nella propria lingua, che è una patria interiore. Per ognuno di noi la più bella, restandole fedele per sempre, sarà la sua. E allora, affinché il virus (e suoi simili d’ogni specie) non distrugga anche la nostra identità linguistico-culturale e queste odierne “invasioni barbariche” abbiano un esito diverso da quelle che abbatterono l’Impero Romano d’Occidente, sarà bene tenere sempre sotto mano oltre al saturimetro pure il vecchio Vocabolario della lingua italiana compilato da Nicola Zingarelli, per rimanere invitti non soltanto sul campo verde di Wembley, ma soprattutto dove noi siamo i veri maestri, sullo sconfinato prato dorato delle lettere.

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