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Memorandum Smemoranda

Dove c’ero io c’era la Smemoranda e dentro di lei c’era tutto di me

Avatar di Chiara Surano

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Smemoranda, aroma di libertà

La mia prima Smemoranda la ricordo più Smemoranda che bella, più simbolo di una transizione personale che piacente. Era nera fuori, bianca al suo interno. Avevo 14 anni, ero in prima liceo, era la libertà

Dopo un’infanzia intera passata a scrivere su diari standard, distribuiti uguali per tutti sia alle elementari che alle medie proprio per non far sentire diverso nessuno, la Smemoranda non era altro che la libertà di scelta, il primo piccolo gesto di autodeterminazione, il primo guizzo di unicità che la vita concedeva, l’inizio dell’età adolescenziale tra fughe, bugie e scritte col bianchetto spesse come tubi di scarico. 

Alla prima Smemoranda nera ne è seguita una seconda più fucsia, verniciata, una terza verde acido e una quarta di nuovo nera per arrivare ad un altro piccolo processo evolutivo e una nuova transizione, questa volta dall’età adolescenziale ad un primo accenno di maturità.

Magica, simbolica e ingenuamente “segreta”

La Smemoranda, se letta in questi termini, è stata un metronomo dell’esistenza, un oggetto altamente simbolico, magico e segreto. Magico perché comprata a settembre aveva una dimensione accettabile, ma a giugno era spessa almeno il triplo. Segreto perché conteneva tutto, soprattutto i “segreti”. Segreti da ragazzina, segreti ingenui, segreti che sembravano inconfessabili solo ai miei occhi, segreti che probabilmente erano tali solo ai miei occhi. Segreti decisamente diversi da quelli degli adulti, quelli che è meglio non confessare nemmeno a se stessi.

Nel pieno della fanciullezza, come un ossimoro, quella Smemoranda facilmente raggiungibile da qualunque occhio indiscreto era lo scrigno, il velo di Maya da squarciare per scoprire tutto di quella ragazzina. Se mia madre avesse voluto leggere la mia Smemoranda avrebbe sicuramente vissuto giornate più serene senza chiedersi dove fossi, senza dubitare del suo essere madre. Insomma, avrebbe scoperto che dietro quei miei gesti di ribellione e dietro alle mie bugie c’era spesso una realtà semplice, candida, molto meno complessa, lontana dai suoi errori. Non ero andata a scuola quella mattina perché ero stata semplicemente tutto il tempo al bar, a 400 metri da scuola, a scrivere col bianchetto sullo zaino della mia migliore amica che l’avrei amata di bene per sempre fumando Camel Light, un pacchetto da 10. Lo avrebbe scoperto perché quel segreto da agente della CIA si sarebbe tradotto in una pagina intera con tanto di data della colazione, nome del bar, nomi e cognomi dei presenti con me ma assenti alla verifica di chimica e soprattutto ci sarebbe stato il cammello del pacchetto di sigarette ritagliato e incollato con tanto di didascalia a onor del vero: “Prima sigaretta, fumata in 4 minuti e 12, ho tossito 14 volte, ha fumato anche Tommaso ma più di me”. 

Insomma, era tutto molto facile. C’erano anche i disegnini. Dove c’ero io c’era la Smemoranda e dentro di lei c’era tutto di me.

Il fallimento della Smemoranda dopo 45 anni di attività

Questa epifania arriva di fronte alla notizia del suo fallimento. Dopo 45 anni di attività, la storica agenda è destinata a sparire per sempre, anche lei tristemente obsoleta in questo mondo così tecnologico, anche lei diventata nell’arco di pochi anni l’ennesimo retaggio del passato insieme agli mp3. L’ennesimo fallimento manifesto che si fa portavoce di un fallimento più radicato che, ancora una volta, è ben più nascosto tanto è diventato scontato.

Non credo che i ragazzini di oggi abbiano meno segreti, meno cotte, meno messaggi in codice da scambiarsi dentro e fuori dalla scuola.

Faccio l’esercizio di provare a immaginarmeli e qualcosa, purtroppo, lo vedo. Li vedo disarmati di fronte alla moltitudine dei colori dei loro schermi, passivamente immersi in un’adolescenza in bianco e nero. Mi immagino i loro bigliettini trasformati in chat, le loro cotte trasformate in gif, il loro malumore racchiuso in un’emoticon. Provo a immaginarmi il colore che non c’è in quelle dichiarazioni d’amore così piatte, uniformate dal font. Li vedo estremamente fragili ed effimeri mentre rincorrono a fatica una libertà fittizia senza più segreti e senza più tempo. Un tempo abbattuto dalle stories, 15 maledetti secondi in cui deve starci tutto, tutti i sentimenti, tutto il loro amore e tutta la loro delusione. Tutta la tristezza, tutta la rabbia, ma in soli 140 caratteri. Nessun biglietto del cinema, nessun ritaglio di giornale e nemmeno più la voglia di impegnarsi a ricordare perché, con questa tecnologia, non c’è più modo di dimenticare.

Accadde oggi, accadde un anno fa, accadde 10 anni fa.

A proposito di accadde, ricordo una discussione, sempre con mia madre, il giorno che scoprì che avevo iniziato a scrivere la N al contrario – И – e i miei temi erano una nauseante montagna russa tra stili, lettere che avevo salvato dal corsivo, lettere che mi piacevano in maiuscolo e lettere un po’ insulse che lasciavo in minuscolo. Era libertà, era anche quella unicità. Avrei potuto riconoscere subito chi aveva scritto cosa e dove perché “è la sua scrittura“.

Che fine faranno i sentimenti degli adolescenti?

Quanto deve essere faticoso e frustrante, oggi, correre dietro ad un account anonimo senza impugnatura e senza inchiostro. Quanto dev’essere frustrante se poi, al posto del ti amo, c’è ti odio.

Il fallimento della Smemoranda, di nuovo in questi termini, lo leggo come l’ennesimo passo verso una speranza di futuro del tutto tradita, verso un domani quanto mai ostico per intere generazioni che non sapranno più riconoscersi tra di loro e dentro di loro, costretti a vivere con il senso di colpa per non essere riusciti ad essere unici in un mondo che unici proprio non li vuole. Un mondo che tratta le loro esistenze come banali contenuti, un mondo che li preferisce più interattivi che attivi, più connessi che svegli, più loggati che presenti, costretti a miseri susseguirsi di post per sentirsi vivi mentre le loro vite piatte scrollano indifferenti sugli schermi dei loro cellulari.

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