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Una storia in otto statue quasi dipinte d’azzurro

Gli 8 magnifici re silenti dinnanzi ai tifosi in lotta contro la loro stessa scaramanzia

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Lo Scudetto che ha messo alla prova la scaramanzia di Napoli

Domenica scorsa, ultimo giorno d’aprile, migliaia di tifosi della squadra del Napoli avevano già invaso la città per festeggiare la vittoria dello scudetto della squadra partenopea. Fin qua nulla di strano. L’anomalia compare forte e chiara per un piccolo particolare: il campionato non era ancora vinto! È vero, mancava soltanto la matematica certezza visto il distacco abissale con le pretendenti, ma i festeggiamenti c’erano stati. Che strano, Napoli, città così scaramantica, ha capovolto la sua identità.

Le 8 statue di Napoli che i napoletani non guardano più

Piazza del Plebiscito, sede del Palazzo Reale, era una nebbia azzurra affollata dai tanti festeggiamenti rumorosi… per nulla. La valanga di fumogeni si è fermata solo – per ora lasciandole ancora del colore originale – al cospetto di 8 statue, personaggi che si identificano in un’epoca, in un periodo, in un ciclo storico. Sono lì, impolverate, in atteggiamento severo, simbolico, a sintetizzare una vita, i costumi, i destini di un popolo.

I napoletani, ormai, passano dinanzi a quel Palazzo Reale e non fanno più caso alle statue. Soltanto gli stranieri si soffermano ed è anche, in fondo, una cosa logica. Alcuni dei re recano il retaggio di casate non meridionali, non nostre. I napoletani non raccontano più neanche la storiella licenziosa che prendeva spunto dalla mano tesa sul petto di uno dei sovrani, dall’indice accusatore di un altro, dalla sciabola alzata invocante il cielo dell’ultimo venuto, in ordine di tempo.

In questa epoca, dove la tradizione non conta più, non dice nulla, anzi viene considerata come la conseguenza di una mentalità superata ed anacronistica, in questa epoca dove la storia diventa espressione paranoica di ambiente, 8 re sono e rimangono soltanto figure di marmo. Che ci abbiano messo mano scultori quali Franceschi, Caggiano, Gemito, Solari, D’Orso, Belliazzi, Amendola, Jerace, lascia il tempo che trova. Chi sono? Cosa vogliono (ancora)? Cosa rappresentano? Il passato, bene, e poi? Oggi tutto è presente, e per molti, sottile programmazione futura.

Gli 8 immutabili sguardi di marmo

Ruggero il Normanno, Federico II di Svevia, Carlo I d’Angiò, Alfonso I d’Aragona, Carlo V, Carlo III di Borbone, Gioacchino Murat, Vittorio Emanuele II di Savoia: i re di Napoli nelle loro nicchie aperte al sole ed alla pioggia, immobili ed immutabili da quando Umberto I volle che fossero schierati per rimanere sotto lo sguardo di intere generazioni, rimangono estranei al pensiero di quanti, con infinita noncuranza, li passano in rivista, li sfiorano, senza approfondire l’indagine.

Chissà cosa direbbero sui discendenti dei propri antichi sudditi se per tocco fantasioso di bacchetta magica avessero di nuovo il filtro di sangue nelle vene, gli occhi non scolpiti e vitrei, ma vividi, lucidi, indagatori, severi come ai vecchi tempi, la spada pronta, la parola facile. Non crediamo che Ruggero e Federico indugerebbero a lungo nel raccontarsi le amene avventure muliebri, le infinite bagarre casalinghe create dalle tre mogli che ciascuno ha impalmato: Elvira, Sibilla e Beatrice per il normanno, Costanza, Jolanda e Isabella per lo svevo.

“Sovrani di ferro ai quali il nostro sud deve molto”

La verità è un’altra: i loro discorsi sarebbero improntati a fatti concreti. Senza contorni di parole vane: infrastrutture, programmazioni, equilibri avanzati. Parole, invece, di sangue e di avventure, di morte e di conquiste, ma anche e soprattutto di realizzazioni. Ruggero metterebbe sull’asfalto della Piazza il gran merito di essere stato il fondatore di uno stato giuridico che il Croce ha definito: “Esempio di una organizzazione felice in una Europa semibarbara“. “Una organizzazione – è sempre Croce che lo sottolinea – nella quale l’anarchia si converte in gerarchia“.

E non è la cosa più determinante perché c’è la libertà di culto, l’unificazione del crogiuolo di ceppi; normanni, bizantini, musulmani, longobardi, indigeni. E Federico gli risponderebbe usando l’identico linguaggio da guerriero e di uomo di legge, di politico e di uomo di cultura, capace di discorrere in italiano, naturalmente in tedesco, francese, arabo, e greco. Tale da essere considerato uno dei poeti migliori del suo tempo, tale da intuire il pensiero aristotelico. Sovrani di ferro ai quali il nostro sud deve molto. L’uno normanno, l’altro svevo.

Egualmente interessante sarebbe il verificarsi del miracolo di un colloquio fra Carlo d’Angiò e Alfonso d’Aragona. Un chiacchierio più disinvolto, più leggero, franco-spagnolo, quindi meno tetragono del precedente linguaggio. Capi di casate rivali che hanno danzato il minuetto della storia, ma in grado entrambi di dare una profonda impronta al nostro mondo. I vespri siciliani? Un incidente sul lavoro, ma sul piatto della bilancio del D’Angiò andrebbero messi i diciannove anni di regno ed una Napoli stabile capitale. L’iberico gli avrebbe risposto rammentandogli il suo grande amore per la Lucrezia d’Alagno. Una lacrima sul viso.

Una storia che infiammò i napoletani dell’epoca, sensibili ai sospiri di un sovrano. Gli avrebbe illustrato la vita di una capitale che dal tocco vellutato francese passava all’esplosione spettacolare spagnolesca. Non sarebbe sfuggito l’aneddoto dell’immensa fontana colma di vino, in grado di dissetare 70mila persone in occasione della visita dei giovani sposi di casa d’Austria, che ebbero in dono dodici cavalli bianchi, una carrozza a quattro ruote a schiuma d’oro ed una lettiga ricamata con gemme e perle a non finire.

Indubbiamente Carlo V si sarebbe sentito un po’ estraneo, lui dominatore di un mondo, costretto ad una angolazione più limitata, trionfatore di Pavia, immagine pennellata da un Veronese con il Solimano, nelle Nozze di Cana.

I magnifici 8 ancor più muti di fronte alla vittoria dello Scudetto del Napoli

Carlo III, fondatore di una dinastia veramente napoletana da Ferdinando IV (poi I) a Francesco II, indubbiamente avrebbe tirato l’orecchio a quel simpaticone di Gioacchino Murat: bello, aitante, sciabolatore nato, ussaro splendido, l’unico forse, capace, di interpretarsi nell’animo dei napoletani amanti del folclore e del romanticismo. Poi il Padre della Patria, sciabola sguainata, al quale per San Martino e Solferino, e prima per Novara (quando da principe fu ferito), i re di Napoli tutti in coro avrebbero certamente, nel corso della carrellata, perdonato Gaeta per una Unità che si compiva.

Di fronte due cavalli e due uomini. La controfigura di Carlo III, creata dal genio di Canova, e quella del re Nasone (Ferdinando IV). Il cavallo del primo re doveva essere montato da un certo Napoleone Bonaparte. Waterloo cancellò tutto. Ma i re, quelli là non parlano, sono di marmo, sono immobili, almeno nella piazza che fu già Largo presso il Gigante. Forse non ne hanno più bisogno. Ed i napoletani non si soffermano a rimirarli. Hanno i re del tempo moderno, hanno Charles III, l’inglese, con Camilla Parker Bowles, che attirano e richiamano la loro attività. Tanto è vero che i magnifici 8 si sono pure scansati la spruzzata d’azzurro scudetto. Buon per loro! Lì giace, schierata, una parte della nostra patria. Cos’è poi? Una serie di pagine che, a volte, persino a scuola si saltano via.

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