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Fascismo e lingua italiana: l’illusione di influenzare il modo pensare

In che modo il fascismo in Italia ha cercato di influenzare il mondo di pensare e di relazionarsi gli uni agli altri a partire dalla lingua

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Prima e durante le ultime elezioni politiche, ed ancora oggi, a nuovo governo formato, si sente nominare spesso la parola fascismo. Usare tale termine nella politica odierna mi sembra semplicemente antistorico. Osservare e richiamare invece quel periodo, durato poco più di 20 anni, da un punto di vista storico e, nel caso di queste mie riflessioni, linguistico può essere invece quantomeno interessante. 

La lingua italiana è sempre stata, nella nostra storia, una questione politica oltre che letteraria. Questione antica perché sorta già dal Due e Trecento, con Dante, e alimentata da aspirazioni unitarie in un Paese sempre frammentato, qual è stata l’Italia. È vero tuttavia che oggi l’aspetto letterario della questione è molto meno avvertito, per prevalenza della lingua parlata su quella scritta e per un conclusivo esaurimento di polemiche puristiche e nazionalistiche, e in ultimo per la grande ignoranza di chi occupa incarichi istituzionali un tempo presieduti solo da accademici e dotti. Eppure, anche a volerci riferire alla sola lingua parlata, vogliamo partire da una distinzione che, mentre limita il discorso a una sola dimensione socioculturale, pone pur sempre il rapporto tra questa fascia e un’altra di cui stiamo per parlare.

Gli uomini delle lettere e gli uomini senza lettere

Infatti a un più alto livello di gradazione intellettuale e morale (e in qualche misura anche sociale) c’è la diversità tra gli uomini delle parole o, se si vuole, delle lettere, e gli uomini senza lettere, ossia quelli che non danno importanza alle parole oltre la mera funzione espressiva e comunicativa, preferendo, appunto come Leonardo, la sperienza.

A questi uomini, che si esprimono solo per pratica necessità e ignorano il fascino del linguaggio, nemmeno diamo importanza e quindi non ce ne occuperemo; anche se, non diciamo la loro noncuranza, ma il legittimo bisogno di semplificare le lingue fino a renderle un mezzo di facilissimo apprendimento e uso, ha dato luogo a tentativi di lingue artificiali, perfette e ridotte al minimo essenziale; e anche se, di questo passo, gli inglesi sono stati capaci di insegnare a parlare la loro lingua con un lessico di soli 850 sostantivi e 18 verbi (se è vero come si dice).

All’altro predetto livello, che possiamo dire letterario, si può trovare ancora una distinzione tra chi dà maggiore o minore importanza alle parole, e poi, in particolare, tra parole belle e brutte, parole musicali e parole dal suono sgradevole, parole colte e parole dialettali o volgari o triviali, parole e parolacce… Ma a pensarci bene, non è poi necessario essere letterati per sentire questa differenza di gradevolezza nelle parole. 

Cosa scriveva Leopardi nello Zibaldone

Al più alto livello si può trovare la distinzione tra parole poetiche e parole prosaiche. “Le parole lontano, antico e simili – scriveva Leopardi nello Zibaldone – sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse“. Più avanti notava che anche le parole notte e notturno, e le descrizioni della notte, sono poeticissime; così anche oscurità e profondo. E circa le parole antiche, esse “sogliono riuscire eleganti, perché tanto rimote dall’uso quotidiano, quanto basta perché abbiano quello straordinario e peregrino che non pregiudica né alla chiarezza, né alla disinvoltura, e convenienza loro colle parole e frasi moderne“.

Dalla specificità alla generalità del lessico

Ma per certo non il solo Leopardi ha riflettuto sulla qualità delle parole in vista di usarle poi nei suoi versi; anzi in ogni scrittore si deve presumere una scelta meditata, quantunque possa essere rapida e quasi spontanea, almeno per l’opportunità di trovare il termine più appropriato, evitando la genericità che caratterizza il parlare corrente. Si consideri come il lessico poetico italiano sia stato, se non sempre fino al secolo scorso, condizionato da tutte le predette qualità ed esigenze: donde non solo l’uso raffinato di termini indefiniti o musicali (come le parole indicate da Leopardi e l’addolcimento di avea invece di avevaomai invece di ormai), ma anche l’esclusione di termini moderni e tecnici, come locomotiva e biglietto (ferroviario), sostituiti da Carducci con vaporiera e tessera.

Da pineta a pineto: il cambio genere di D’Annunzio

In certi casi il poeta deforma la parola alleggerendone il peso fonetico (imagine per immagine), o ne cambia il genere, per ottenere un migliore effetto musicale. Così D’Annunzio intitolò una famosa poesia dell’Alcyone La pioggia nel pineto, preferendo il maschile al femminile pineta. Egli stesso, in un taccuino annotava: “La Pineta è selvaggia, tutta chiusa da cespugli fitti, da mirti, da tamerici“, volendo forse giustificare l’uso di pineto, che non sarebbe tale.

Italiano e straniero, ma anche italiano e italiano regionale: l’unità linguistica

Queste distinzioni avvennero non solo nell’ambito di una singola lingua, ma anche tra lingua e lingua: tra greco e latino, tra latino e italiano, tra italiano e francese, tra italiano e altre lingue straniere. Nel confronto con le altre lingue moderne, in Italia l’antica questione letteraria si mescolava con quella nazionale e rivelava la passione unitaria, se la lingua, con le armi, l’altare, le memorie, il sangue e il cuore, serviva a contrassegnare e a rivendicare la patria negata dal prepotente straniero. Di conseguenza, il problema si poneva poi, all’interno dell’idioma italiano, nel rapporto tra italiano-italiano e i vari italiani dialettali delle città e regioni, che rappresentavano diversità anch’esse, se non di nazione, di tradizioni locali e influenze straniere.

Il patriottico purismo ottocentesco

Pertanto è facile intendere che l’avversione dell’Alfieri contro il barbarismo linguistico si riferiva in massima parte ai francesismi del suo Piemonte. È anche nota la finalità patriottica del “purismo” ottocentesco, il quale veramente condannava soprattutto le impurità dello stesso italiano e non le parole e le espressioni straniere.

Ancora, e forse più che mai, nella calda atmosfera dalla decisione presa nel 1868 dal ministro dell’istruzione Broglio di affidare a una commissione di esperti, presieduta dal Manzoni, l’incarico “di proporre tutti i provvedimenti e i modi coi quali si potesse aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia“, tra le tante cose che si scrissero in favore della lingua di Firenze o di quella toscana o di quella rimescolatasi attraverso l’unificazione politica, si ripresentarono questioni talvolta di poco conto, mentre si deploravano alfierianamente “le sozzure di Francia, d’Inghilterra, dell’Alemagna” e si respingevano le parole intruse che corrompevano la “nostra bellissima lingua“.

Vero è che, diversamente da chi voleva ad ogni costo fondare una lingua tutta e sola italiana (cioè fiorentina), qualcuno pure plaudiva alla futura koinè, al “nuovo latino” inteso da tutti, di là da venire; ma intanto, essendo avviato il processo di unificazione linguistica grazie anche al rimescolamento della parlata attraverso la leva militare che dislocava giovani per tutta la penisola, si potevano pure valorizzare i dialetti di cui era prevedibile ed anzi auspicabile la sopravvivenza.

L’Italia ai tempi del fascismo e la guerra a tutte le parole straniere

Rispetto a quanto fu scritto in seguito alle polemiche suscitate dalla iniziativa ministeriale predetta, molto, ma molto meno dibattuta, e pertanto meno nota e forse dimenticata per la sua dappocaggine, fu la campagna che il fascismo iniziò contro tutte le parole straniere in uso nel nostro parlare quotidiano, nel linguaggio degli affari, della moda, della cucina ecc. Dal 1926 le insegne straniere vennero tassate. Ma si trattava di termini penetrati nella nostra vita per il contatto storico con la Francia, specialmente; e termini sopraggiunti dal mondo anglosassone con i commerci, i rapporti scientifici e tecnici, bancari ecc.

Non si poneva il problema col tedesco, la cui intrusione o piuttosto utilizzazione, molto limitata e non mai definitiva, era e continuava ad essere di uso colto nel campo filosofico e filologico; né si poneva il problema dello spagnolo, perché la presenza degli spagnolismi era stata assorbita del tutto, specialmente nel dialetto napoletano.

Il purismo linguistico degli anni ’20: l’alcole e Bolgiano

Allora, per ordine del regime, furono bandite parole che innocentemente erano usate da secoli, nella forma originaria oppure italianizzate o sostituite, come ouverture, comò, hotel, oblò (franc. hublot), cognac, ecc. Né solo parole francesi e inglesi furono estromesse, ma anche altre di diversa origine. La parola alcool, di origine araba, fu imposto che si scrivesse e si pronunciasse alcole. Anche i nomi geografici subirono lavaggi o sostituzioni, che veramente sono rimasti, ad eccezione di alcuni pochi. Ma è credibile che in questi casi l’iniziativa partisse dagli stessi comuni, quando essi portavano ab antiquo un nome divenuto ridicolo all’orecchio moderno, come, per esempio, Dentecane (prov. d’Avellino), che divenne Pietradefusi, e Panicòcoli (prov. di Napoli), che divenne Villaricca. In qualche caso il nazionalismo si ripresentò, come nel tentativo di chiamare Bolzano Bolgiano, parendo che il suono della g fosse più italiano della z (più tedesca).

L’imposizione del “voi” al posto del “lei”

 La campagna del fascismo sarebbe potuta essere giusta come tale, cioè come proposta, magari nello spirito del nazionalismo risalente al Risorgimento; ma essa, servendosi di argomentazioni patriottarde e intimidatorie, suscitava ironia, fastidio e rabbia, e soprattutto gran voglia di disattendere le ingiunzioni. Così, nell’imposizione del voi al posto del lei, sopraggiunta nel 1938, accadeva che chi, come la massima parte dei napoletani, era abituato a usare il voi, ora lo trasgrediva e usava invece il lei, insolito e proibito.

È inutile soffermarsi a criticare la campagna intesa a purificare la lingua, perché bastava considerare i grandi prestiti italiani agli stranieri nel campo del canto, della musica e del teatro. Del resto, questi sciocchi e inutili soprusi si riprovano con la verità, ignorata dai fascisti, che “libertà e tolleranza attengono alla lingua, non meno che alla religione, e più che alla politica“, sacrosanta affermazione del filologo Carlo Dionisotti. Ma ciò che più infastidiva e più si prestava all’ironia e al dileggio era la pretesa di italianizzare le parole straniere, invece di andare, se mai, a cercare (come i puristi avevano già fatto) parole sostitutive italiane.

Chaffeur o autista: il fascismo, una questione anche linguistica

Compito anche questo tanto facile a pensarsi quanto difficile a realizzare per la resistenza secolare dell’abitudine di dire comò invece di cassettone, gilé invece di corpetto o panciotto, ragù invece di stufato o stracotto. Nondimeno, nelle discussioni giornalistiche, talvolta, con ragione e non senza arguzia, spuntava qualche soluzione non disprezzabile. Un esempio per tutti fu la sostituzione di autista, proposta dalla Confederazione fascista dei Trasporti (ma qualcuno avrebbe preferito autiere) all’assurdo chauffeur, che non solo era impronunciabile (a Napoli, in dialetto, ‘o sciafferre), ma sapeva troppo di ferrovie a vapore, per quell’inerzia che fa chiamare nei paesi anglosassoni carro (car) l’automobile, e, in Italia, carrozza la vettura ferroviaria o tranviaria, e freno (come quello del cavallo) il dispositivo di arresto dei veicoli.

E a proposito di chauffeur, notiamo che la lingua italiana, così levigata e rotonda – ed ecco perché è apparsa sempre bella! –, è stata ostinatamente refrattaria all’esatta pronuncia delle parole straniere, riuscendo solo a stravolgerle, e comportandosi allo stesso modo anche verso i cognomi e i nomi delle città. Nel che si può riscontrare la prova di una intolleranza linguistica verso una pronuncia e una fonetica diversa da quella nostrana. E ciò non accadeva soltanto tra gli ignoranti convitati di don Rodrigo, o nella sarcastica irrisione del popolino napoletano durante l’occupazione alleata, ma anche a livelli sociali alquanto più alti o diciamo tra persone istruite.

La resistenza dei bar negli anni del fascismo

Sia come sia, accanto al fortunato termine che sostituì il francese chauffeur rimase fermo e imbattibile il termine celtico bar: tanto è vero che esso ha resistito anche oltre il fascismo e solo da pochi anni ha come concorrenti cafeteria e pub (che pure sono stranieri e sono esercizi alquanto diversi dal bar). È curioso che fin dal 30 dicembre 1926 la Confederazione fascista dei Commercianti otteneva l’esenzione dalla tassa sulle insegne straniere “perché la parola bar non è traducibile, essendo la corrispondente parola taverna di significato diverso dal tipo di esercizio“.

La parole proibite dal fascismo: dal coiffeur al tabarin

Rimasero anche altre parole straniere, sebbene la sostituzione con termini italiani antichi fosse legittima e talvolta felice, come panfilo per yacht e overtura per ouverture. Diversamente altre parole vennero rigorosamente proibite, come, per esempio, coiffeur. La parola tabarin fin dal 1927 era abolita insieme ai pubblici ritrovi che designava, in omaggio alla morale – espressione di Alfredo Panzini – del governo ai tempi del fascismo. Era anche in questo modo che la lingua del regime si infiltrava ovunque modificando progressivamente la percezione del mondo, il modo di pensare, di relazionarsi gli uni agli altri, di riconoscersi.

Ma così facendo, con la forza, la purezza (illusoria) della lingua rimaneva solo pura illusione. Le lingue si modificano e si purificano con la libertà di pensiero, con l’incontro degli scambi culturali e con l’amor proprio e verso il prossimo: per esser vive e restar tali devono evolversi, – s’intende, senza esagerare e stravolgere la propria identità -, ed è un bene che lo facciano perché devono riuscire a esprimere i cambiamenti del mondo.

E per noi italiani, che dai primordi del Risorgimento avevamo fatto della lingua un vessillo di identità nazionale e la pregiavamo, pura da intrusioni estranee, come la più bella di tutte le lingue… Che distanza, anzi che abisso tra quei tempi in cui si volevano far prendere sul serio questioni talvolta proprio oziose, trattandole come nazionali e patriottiche e l’epoca attuale in cui il lessico italiano è invaso e stravolto da centinaia di parole estranee e persino da derivati italiani di esse, entrati nella coniugazione verbale. E tutti chatteranno felici e contenti…

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